C’è un mito duro a morire: la rabbia è “cattiva”. Da piccoli ci hanno insegnato che chi si arrabbia perde, esagera, “fa scenate”. Da grandi la infiliamo sotto il tappeto con un sorriso educato e una gastrite. Spoiler poco romantico: la rabbia non è il problema. È un messaggero. Un segnale di bordo, come una spia rossa sul cruscotto: non è lì per rovinarti il viaggio, è lì per dirti che qualcosa merita attenzione adesso.
In terapia, quando qualcuno mi dice “io non mi arrabbio mai”, non penso “che bravə”. Penso: “dove sta andando quella energia?”. Perché la rabbia, se non la incontri, si ricicla: diventa ansia che stringe lo stomaco, malinconia che ti spegne, scatti su chi ami per cose minuscole, fame nervosa alle undici di sera. Non sparisce, cambia maschera.
Che cos’è davvero la rabbia (e a cosa serve)
La rabbia è un’emozione primaria, antichissima, programmata per proteggerti.
Arriva quando qualcosa non torna: un’ingiustizia, un confine violato, un obiettivo bloccato. Il suo compito non è farti “perdere la testa”, ma restituirti energia e direzione per ripristinare un equilibrio. A livello molto concreto, è un picco di attivazione che porta sangue ai muscoli, accende l’attenzione, stringe il fuoco su ciò che conta e ti segnala: “qui non va bene”.
Se la guardi così, smette di essere un mostro da zittire e diventa una bussola che ti indica dove intervenire. Ed è proprio qui la parte più fraintesa: la rabbia non è solo una fiamma che brucia; è anche un combustibile che muove. In molte situazioni, quando viene riconosciuta e incanalata, funziona quasi come un “antidepressivo naturale”: rompe l’immobilità, contrasta la passività ruminante, ti rimette in azione. Non cura la depressione clinica—non sostituisce la terapia medica o psicologica quando serve—ma, nel quotidiano, può diventare un antidoto alla stagnazione emotiva: al posto di spegnerti, ti dice “alzati, fai qualcosa, adesso”.
Pensa a tre scene di tutti i giorni. Da fuori sembrano piccole, ma raccontano dinamiche enormi.
Primo: al lavoro ti rimbalza per la quarta volta il compito che nessuno vuole. Sorridi, dici “tranquilla, lo faccio io” e poi a casa macini frustrazione fino a notte. Qui la rabbia che non ascolti diventa usura: non sparisce, ti consuma a bassa intensità.
Secondo: in coppia “lasci correre” piccole cose che non ti vanno—“non è il momento”, “meglio non fare polemica”—e dopo mesi esplodi per una tazza fuori posto. Non è la tazza: è la somma. La rabbia accumulata esce sproporzionata.
Terzo: giornata di “va tutto bene”, e poi ti ritrovi nel pacco di biscotti a sera. Non è fame: è compenso. La rabbia messa a tacere trasloca sul cibo.
Il filo è lo stesso: la funzione della rabbia è difendere bisogni e valori. Se la spegni a prescindere, perdi la bussola; se la lasci guidare l’auto, finisci nel fosso. Il lavoro non è “arrabbiarsi meno” o “arrabbiarsi di più”: è arrabbiarsi meglio. Tradotto: usare quell’energia per stare sul pezzo, definire un confine, chiedere un cambiamento, fare un gesto coerente. Non teatralità, efficacia.
“Ma io ho paura della mia rabbia.”
Paura legittima. Se a casa tua l’ira era urlo, minaccia, silenzio punitivo, oggi è comprensibile che la rabbia ti sembri una bomba. Qui serve un chiarimento che libera: rabbia ≠ aggressività. La rabbia è un’onda; l’aggressività è una scelta su come cavalcarla. Puoi urlare e spaccare tutto, certo. Oppure puoi usare la spinta dell’onda per dire un no chiaro, mettere un limite, formulare una richiesta precisa, passare all’azione utile. È la differenza tra reagire e rispondere.
Un trucco pratico che in Terapie Brevi cambia il copione: sposta il focus da “non devo arrabbiarmi” a “quando mi arrabbio, che cosa sto proteggendo?”. Quella domanda prende un vulcano e gli dà coordinate: dal boato all’orientamento. E in quel passaggio succede il piccolo miracolo: la rabbia smette di essere benzina per l’esplosione e diventa carburante per il comportamento giusto—quello che ti fa avanzare di un passo nella direzione dei tuoi bisogni.
Cosa ti sta dicendo, precisamente, la tua rabbia?
La rabbia parla una lingua semplice: nomina un bisogno non rispettato. Se la traduci, smetti di lottare contro le persone e inizi a negoziare sui processi, sui confini, sulle azioni. Qualche traduzione utile:
- “Mi interrompe sempre” diventa: ho bisogno di spazio e tempo di parola (ritmi, turni, non monologhi).
- “A casa fanno finta di niente” diventa: ho bisogno di riconoscimento e di una distribuzione equa del carico (chi fa cosa, quando, come si verifica).
- “Mi hanno scavalcata” diventa: ho bisogno di equità e chiarezza dei ruoli (criteri, priorità, percorsi decisionali).
- “Non ascolta i miei no” diventa: ho bisogno di confini e sicurezza (limiti, conseguenze, rispetto).
Non sono sfumature: sono coordinate operative. Quando rintracci il bisogno, la conversazione cambia statuto: dal “chi ha ragione” al “come funzioniamo meglio”.
Aggiungiamone altre, che capitano spesso in studio:
- “Devo pensarci io sennò non lo fa nessuno” → ho bisogno di condivisione della responsabilità (non aiuto occasionale, responsabilità stabile).
- “Tanto non serve chiedere” → ho bisogno di essere presa sul serio (richieste chiare + accordi verificabili).
- “Decidono tutto all’ultimo” → ho bisogno di prevedibilità (scadenze, preavvisi, margini di scelta).
Il circuito che ti frega: trattenere → trattenere → esplodere → colpa → trattenere
Se ti ci ritrovi, sei in numerosa compagnia. Funziona così: avverti l’onda, la tappi “perché non sta bene”, accumuli, poi esplodi in modo sproporzionato, poi ti senti in colpa, prometti che “non succederà più”… e riparti da capo. È il paradosso del controllo: più provi a sopprimere, più l’onda cresce sotto traccia. Le Terapie Brevi qui non chiedono un trattato sul “perché”: lavorano sul come interrompere il loop, cioè sul pezzo comportamentale-relazionale che alimenta il problema.
Tre passaggi pratici per “arrabbiarsi meglio”
1) Riconosci l’onda nel corpo, prima che ti prenda la testa
La rabbia annuncia il suo arrivo con segnali fisici: mandibola che stringe, calore al viso, spalle su, respiro a scatti. Qui non servono incensi: servono 120 secondi di freno motore. Piedi a terra, espirazioni più lunghe delle inspirazioni (per esempio 4 tempi in, 6 tempi out), mandibola che si allenta, spalle che scendono. Non è zen da cartolina: è neurofisiologia applicata. Abbassi di un click l’attivazione, abbastanza da poter scegliere (la scelta viene dopo; con il corpo in overdrive non scegli, reagisci).
2) Dai un verbo all’emozione
Non “sono furiosa”, ma “mi sto arrabbiando perché…”. Metti in fila tre righe (se puoi, proprio scritte):
- È successo X (fatto oggettivo).
- Per me significa Y (il senso che attribuisci).
- Ho bisogno di Z (richiesta/criterio/accordo).
Esempio lavoro: “La riunione è stata spostata due volte senza avviso (X). Per me significa che il mio tempo non viene considerato (Y). Ho bisogno che le modifiche siano comunicate con almeno 24 ore di anticipo (Z).”
Questo è un copione di chiarezza: niente arringhe infinite, niente tribunali morali, solo dati + significato + bisogno.
3) Parla di confini, non di colpe
La formula che funziona è: “Quando succede X, io mi sento Y e ho bisogno di Z. D’ora in poi farò/ti chiedo di…”. Non stai certificando chi ha ragione nel passato; stai progettando il futuro. È chirurgia del quotidiano.
Esempio in casa, versione terra-terra (cruda ma civile):
“Quando rientro e trovo la cucina come un set post-apocalittico, mi sento sovraccaricata e arrabbiata. Ho bisogno che ogni sera ci sia un giro di sistemazione di 10 minuti. Da oggi, se dopo cena nessuno muove un dito, metto un timer e ciascuno fa la sua parte. Se non succede, i piatti saltano al giorno dopo e si cena freddo. Non è una punizione, è un confine.”
Sì, è diretto. Ed è proprio per questo che è funzionale: i confini senza conseguenze sono poesia, non accordi.
E quando esplodo?
Capita. Hai trattenuto a lungo, un dettaglio accende la miccia, dici parole che non volevi. Non si fa finta di niente. Si ripara: “Ieri ho alzato il tono. La rabbia che sentivo era reale, il modo no. Torno al punto: qui ho bisogno di X; come lo organizziamo?”. Riparare non cancella; ricostruisce affidabilità. E ti insegna che non devi essere perfetta per essere autorevole.
In chiusura: la rabbia come alleata
La rabbia non è un difetto di fabbrica da estirpare. È un’emozione intelligente che chiede posto anche a tavola. Quando la ascolti, ti indica ciò che per te conta. Quando la traduci, diventa una frase intera. Quando la usi bene, ti protegge e ti orienta. Non è un segnale perfetto ma sufficiente per costruire relazioni più oneste e confini più vivibili. Anche col cibo, sì: meno anestesia, più presenza.
Le Terapie Brevi, e in particolare la Terapia a Seduta Singola, sono ottime alleate quando la rabbia ha messo radici in abitudini quotidiane (evitamento, compiacenza, esplosioni). Non stiamo mesi a sezionare il passato (se serve, ci torniamo con rispetto); iniziamo a rompere il circuito oggi. Una singola seduta ben costruita può darti strumenti immediati: un copione di confine, un micro-esperimento per casa, un piano di riparazione. Poi decidi tu se e quando tornare in base a ciò che riterrai utile per te.
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